Rosarno, storia di una guerra tra poveri diretta dalle mafie
«Mi piace sottolineare, ancora una volta, che gli africani vengono in Italia a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare e a difendere diritti che gli italiani non riescono più a difendere»
– Roberto Saviano –
Questi giorni non si parla di altro che dei fatti di Rosarno. E vorrei ben vedere.
In effetti non è stata altro che una guerra tra poveri, poveri gli immigrati, poveri i residenti. Ognuno di loro difendeva con le unghie e con i denti la propria povertà . Diversa, ma vicina. Differente, eppure tremendamente simile.
Il tutto sotto l’attenta regia della mafia. Il tutto voluto dalle cosche locali per riaffermare il loro potere e la loro supremazia territoriale.
Per riflettere in modo serio, al di là di slogan, stereotipi e luoghi comuni, mi sembra utile leggersi l’editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica e l’articolo sull’omelia del parroco di Rosarno fatta questa domenica.
Buona lettura.
“Bisogna aiutare i fratelli che sbagliano”, spiega il sacerdote. “E in questi giorni che stiamo vivendo qualcuno ha sbagliato. Ma questo non ci autorizza a colpirlo, a inseguirlo, a ucciderlo, a cacciarlo. Ci obbliga a capire, a fermarci. Per non sbagliare più. Questo dobbiamo fare se vogliamo essere dei cristiani”. Il parroco lascia l’altare, scende tra la gente. Parla a braccio, stringe con le mani il microfono. “Se ho un fratello in famiglia non posso picchiarlo o cacciarlo di casa perché ha rotto un vaso. Devo andargli incontro, sostenerlo, capire cosa è accaduto”. Allarga le braccia, sorride: “Vedo finalmente questa chiesa piena, sono contento che moltissimi tra voi sono tornati. Ma vedo anche che manca qualcuno”. Don Pino sospira, si rivolge ai bambini. “Lo vedete anche voi. Non c’è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica”. I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. “Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall’Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati”.
E’ il culmine dell’omelia. E’ il momento dell’appello. E del rimprovero: “Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E’ facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo”.
Il parroco adesso è al centro della navata. Si rivolge al suo gregge che appare ancora più smarrito. Alza la voce, come un tuono: “Possiamo anche dire che abbiamo sbagliato. Che i miei fratelli, bianchi e neri hanno sbagliato. Ma lo dobbiamo dire sempre. Non solo quando qualcuno ci sfascia la macchina. Lo dobbiamo sostenere con  forza anche quando altri fanno delle cose ancora più gravi. Cose terribili. Dobbiamo avere il coraggio di gridare e denunciare”. Il sacerdote indica il presepe: “Non avrebbe senso aver allestito questa opera. Non avrebbe senso festeggiare il Natale. Meglio distruggerlo e metterlo sotto i piedi. Dobbiamo celebrarlo convinti dei valori che lo rappresentano. Perché crediamo nella misericordia e nella solidarietà . Se invece non abbiamo la forza di ribbellarci ai soprusi e alle ingiustizie e siamo pronti alle violenze nei confronti dei più deboli, allora non veniamo più in chiesa. Dio saprà giudicare. Saprà chi sono i suoi figli”.
Il Duomo è avvolto da un silenzio pesante. Molti muovono nervosi le gambe. Don Pino è stato chiarissimo. Ha colpito nel segno. E’ riuscito a scavare nell’animo della Rosarno ferita e confusa. “Non mi ero preparato alcuna omelia. Ho detto queste cose perché le sentivo. Perché mi sono state suggerite. Non da qualcuno tra voi. Ma da Dio. Potrò sembrarvi presuntuoso. Ma Dio, che ha assistito alle violenze di questi giorni, mi ha chiesto di dirle ai suoi figli. Figli come voi. Figli che hanno sbagliato e che vanno aiutati a non sbagliare più”.
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L’inferno di Rosarno e i suoi responsabili
di Eugenio Scalfari
A ROSARNO ha infuriato per due giorni e due notti prima una sommossa e poi una caccia al “negro” con ronde armate che sparano a pallettoni per ferire e ammazzare. Nel terzo giorno, cioè ieri, gran parte degli immigrati è stata portata via dalla polizia nei centri di concentramento chiamati centri di accoglienza, sulla costa jonica della Calabria, ma la caccia al “negro” continua contro i pochi dispersi che vagano ancora nella piana di Gioia Tauro. Un incidente mortale potrebbe ancora accadere, visto lo stato d´animo dei “cacciatori” che ricorda quello degli aderenti al “Ku Klux Klan” nell´America degli anni Sessanta. Siamo arrivati a questo? Perché ci siamo arrivati?
I calabresi hanno difetti e virtù, come dovunque in Italia e nel mondo. Fra le virtù più radicate c´è quella dell´ospitalità , che ha un che di antico ed è tipica della civiltà contadina. Ma anche l´ospitalità si è logorata col passare del tempo e il mutare delle condizioni sociali. E con l´arrivo della mafia.
Fino ai Sessanta non esisteva mafia in Calabria. Esisteva il brigantaggio nei boschi dell´Aspromonte e delle Serre. Esisteva da secoli, ma non la mafia. Ora, da quarant´anni, la mafia calabrese è diventata la più potente delle organizzazioni criminali che operano nel Sud d´Italia e la gestione degli immigrati è una delle sue attività , specie nella piana di Gioia Tauro, dove le “´ndrine” possiedono anche fertili terreni coltivati ad aranci. Il caporalato è diffuso e utilizza il lavoro dei clandestini.
Attualmente sono valutati a circa ventimila i braccianti destinati alla raccolta delle arance, dei mandarini e dei bergamotti. Ma non è un fenomeno recente, dura da quindici o vent´anni in qua. Riguarda solo i maschi, non ci sono femmine tra loro né famiglie. Sono maschi singoli, senza dimora, alloggiati in ovili diroccati, senz´acqua, senza luce, senza cessi. E vagano per quelle terre in cerca di lavoro giornaliero.
Vagano in Calabria, in Sicilia, in Basilicata, in Puglia. Secondo le stagioni raccolgono agrumi, olive, uva, pomodori. Il lavoro è in mano ai caporali, quasi tutti affiliati alle mafie locali. Dodici ore per venti o venticinque euro sui quali i caporali trattengono un pizzo di cinque e i camionisti che li trasportano sui campi un prezzo di due o tre euro.
«Cercavamo il paradiso abbiamo trovato l´inferno» ha detto ieri uno di loro avvicinato da un cronista. Eppure, se continuano a cercar lavoro in quell´inferno vuol dire che sono fuggiti da inferni ancora peggiori. Sono gli ultimi della Terra. Quelli ai quali Gesù di Nazareth nel discorso della Montagna promise che sarebbero stati i primi nel regno dei cieli. Alla fine dei tempi. Dodici ore di lavoro a 15 euro di paga. I tremila di Rosarno e gli altri come loro non hanno tempo di pregare, stramazzano in un sonno da cavalli o da maiali grufolosi. È questo l´amore, è questa l´ospitalità ?
I calabresi di Rosarno non sono certo abitanti di un paradiso. Sono quindicimila di povera gente e vivono in un paese sotto il tacco della mafia. Il Comune fu sciolto per infiltrazioni (si fa per dire) mafiose ed è amministrato da un commissario prefettizio. Ma quando si faranno nuove elezioni vinceranno ancora le “´ndrine” perché in quella piana la mafia è un potere costituito, in attesa che lo Stato lo sconfigga. Speriamo che avvenga presto, ma se mi domandate quando sarò tentato di rispondervi: «alla fine dei tempi», quando verrà il regno dei giusti e il giudizio universale. Prima ci sarà stata l´Apocalisse. Che sembra già cominciata.
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Qualche domanda però è di rigore. La rivolgiamo al ministro dell´Interno, a quello del Lavoro, a quello delle Attività produttive, a quello dell´Agricoltura, competenti e quindi politicamente responsabili di quell´inferno. Ma le rivolgiamo anche al Prefetto, al Questore, al Comandante dei carabinieri, al Governatore della Regione. Non sapevate? Non sapevate che la raccolta dei frutti di quelle terre è affidata a ventimila immigrati, in maggior parte clandestini, gestiti da caporali e pagati in nero? Non sapevate come vivevano? Non vi rendevate conto che si stava accumulando un materiale altamente infiammabile e che l´incendio poteva divampare da un momento all´altro? Non avevate l´obbligo di intervenire? Di attrezzare un´accoglienza decente? Di regolarizzare i clandestini e il loro lavoro, oppure di rimpatriarli ma sostituirli visto che gli italiani quel tipo di lavoro non sono disposti a farlo?
Maroni ha messo le mani avanti ed ha dichiarato l´altro ieri che c´è stata troppa tolleranza: bisognava cacciare i clandestini o processarli per il reato di clandestinità . Ma se di tolleranza si tratta, a chi è rivolta l´accusa di Maroni se non a se stesso? Non è lui che predica la sera e la mattina la tolleranza zero? Se ne scorda per le terre a sud del Garigliano? Oppure si rende conto che, clandestini o no, gli immigrati sono indispensabili all´economia italiana? E che la tolleranza zero ci ridurrebbe alla miseria?
Al Nord è diverso: la miriade di piccole imprese della Val Padana e del Nordest hanno bisogno degli immigrati e organizzano un´accoglienza decente, salvo poi dare i voti alla Lega a tutela dell´”integrità urbana”, della separazione o dell´integrazione col contagocce. Si può capire: l´immigrazione in Italia è arrivata tardi ma in dieci anni siamo passati da un milione a quattro milioni di immigrati. Il tasso d´aumento è stato dunque molto alto ed ha determinato inevitabili tensioni sociali. La classe politica avrebbe dovuto gestire questo complesso processo; invece ha puntato le sue fortune sulla paura e ne ha ricavato consenso.
Nel Sud non poteva che andare peggio. Lì non c´è purgatorio ma inferno. Lì sono i volontari i soli che tentano di sfamare gli “ultimi” e dar loro una parvenza di riconoscimento. Maroni e Scajola e Zaia e Sacconi preferiscono far finta che non esistano. Aprono gli occhi solo quando scoppia la sommossa e poi la caccia al negro. Ma non hanno altra ricetta che l´espulsione, anche se ieri Maroni ha smentito che di questo si tratterà per i clandestini di Rosarno. Ma chi raccoglierà le arance, i pomodori, le olive? Chi attrezzerà l´accoglienza?
Il partito dell´amore dovrebbe materializzarsi in quelle terre dove regna invece la violenza mafiosa, i bulli di paese che si spassano giocando al tiro a segno con i fucili ad aria compressa e sparando sul negro per vincere la noia.
Noi aspettiamo risposte alle nostre domande, anche se sappiamo per esperienza che questo potere non ha l´abitudine di rispondere.
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Nel frattempo, nelle alte sfere si consumano altri misfatti. Uno di essi è la decisione del presidente del Consiglio di coprire con il segreto di Stato la posizione processuale di Marco Mancini, già capo del controspionaggio alle dipendenze dell´allora direttore del servizio di sicurezza, Nicolò Pollari.
Misfatto, cattivo fatto: non trovo altra parola per definire un atto di estrema gravità . Ne ha diffusamente scritto il collega D´Avanzo il 6 gennaio scorso. Se torno sull´argomento è proprio partendo da una sua definizione alla quale non è stata data alcuna risposta. D´Avanzo è un giornalista scrupoloso che fa domande più che legittime doverose; il fatto che siano scomode per il potere accresce la loro legittimità e dovrebbe obbligare i destinatari ad una plausibile spiegazione.
La definizione di D´Avanzo distingue tra i fini e i mezzi nell´attività dei servizi di sicurezza. I fini sono prescritti dalla legge: la difesa dello Stato e delle istituzioni in cui esso si articola; la lotta contro lo spionaggio straniero; l´acquisizione all´interno e all´estero di notizie utili al perseguimento dei fini suddetti.
I mezzi sono invece scelti discrezionalmente dalla direzione del servizio e possono in certi casi anche violare le leggi ma proprio in quei casi l´autorità politica deve esserne informata sotto vincolo di segreto. Sappiamo tutti che il servizio di sicurezza non ha natura angelica e addirittura può avere commercio anche col diavolo, ma sempre per il raggiungimento di quei fini e non per altri.
Il segreto di Stato può venire opposto al magistrato inquirente e a quello giudicante. Ma esiste tuttavia un organo di natura parlamentare, il Copasir, che ha il potere di accedere alla documentazione superando il segreto e questo sulla base del principio democratico secondo il quale non deve esistere alcun organo dello Stato che non abbia sopra di sé un altro organo cui rispondere.
Parlo di queste cose perché mi trovo nella condizione di essere il primo, insieme al collega Lino Jannuzzi che allora lavorava con me all´Espresso, ad aver vissuto in prima persona l´apposizione del segreto di Stato in un processo che fu intentato contro di noi a proposito del “Piano solo” organizzato dall´allora comandante generale dei carabinieri, De Lorenzo.
Non entro nei dettagli che sono fin troppo conosciuti, se non per ricordare che noi demmo la prova testimoniale dell´esistenza di quel Piano, che aveva connotati eversivi, al punto che il Pubblico ministero che guidava l´accusa contro di noi e che si chiamava Vittorio Occorsio ? ucciso qualche anno dopo dal terrorismo fascista ? chiese al tribunale l´archiviazione degli atti contro di noi ritenendo che avevamo raggiunto la prova dei fatti.
Il tribunale ritenne però che la prova testimoniale non bastasse e chiese l´esibizione del documento redatto dal Comando dei carabinieri, agli atti del servizio di sicurezza. L´allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, pose il segreto di Stato su quel documento e così fummo condannati.
Non esisteva a quell´epoca un Copasir che potesse accedere alla documentazione; fu istituita una Commissione parlamentare d´inchiesta dove però, per regolamento, la maggioranza parlamentare era presente in numero soverchiante. La Commissione lavorò per quasi un anno e si concluse con un compromesso. Poi la legge sul segreto fu riformata e il Copasir ? la cui presidenza spetta all´opposizione ? ne è stato uno dei positivi risultati.
Proprio per queste ragioni è della massima importanza la scelta del presidente di quell´organismo, che dev´essere indicato dai gruppi parlamentari del maggior partito d´opposizione, cosa che avverrà nei prossimi giorni. L´esperienza ci insegna che chi guida quel delicatissimo organo deve avere l´intelletto e i titoli per venire nominato a quella carica e non dev´essere in nessun modo mescolato alla lotta politica in corso. Dal momento in cui viene insediato acquista le caratteristiche di un giudice di una magistratura che è la sola che possa vigilare sulla congruità dei mezzi usati dai servizi di sicurezza per realizzare i fini che la legge indica, vigilando anche che i mezzi non siano così perversi da stravolgere i fini stessi.
Noi abbiamo la sensazione che il segreto posto sulla posizione processuale di Marco Mancini copra mezzi illeciti e non pertinenti ai fini di istituto, ma la nostra sensazione non fa testo, può soltanto suscitare attenzione nell´opinione pubblica. Spetta al Copasir accertare ed eventualmente rimuovere il segreto di Stato su quella specifica situazione. E qui il peso della scelta, che sia congrua ai compiti di quell´organismo.